Cristo si è fermato a Eboli – La bellezza dell’espressione

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L’occhio si posa sul film per le ragioni più disparate. Le dita si posano sulla tastiera per motivi precisi, dettati da una scelta. Il film da sviscerare: quale? Dipende dalle motivazioni personali del Cinetecario di turno. Potremmo scrivere tutte le recensioni del mondo, ma ci sentiamo di pubblicare – parlo anche per Lambert, spero non mi smentirà – solo quelle in cui abbiamo qualcosa di nuovo da dire. Sul vischioso terreno inesplorato potremmo perdere la bussola, ma è un rischio che ci sentiamo di correre.

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Il film di oggi scaturisce da un romanzo celebre, lo starnuto personale di un individuo segnato da un’esperienza profonda. Uno spaccato di vita – o una voragine di grosse dimensioni – che il grande Francesco Rosi nel 1978 ha deciso di incidere su pellicola per rinverdire la sua personale poetica. Che non è, fotogrammi alla mano, di solo impegno civile. Oggi vorrei ricordare Rosi in un altro modo, spostare la lampada del terzo grado sull’espressività del suo cinema. Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi fece al caso suo. Il suo film, oggi, fa al caso mio.

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Lucania, anni Trenta. Un medico torinese arriva per scontare il suo confino. Le sue idee non si raccordano col pensiero vigente. Quei mezzi calanchi riarsi e separati dal mondo sono funzionali ai censori di regime per allontanare gli indesiderati. I contadini che li animano, portatori insani di un’arretratezza millenaria, per quest’uomo saranno motivo di interesse e alimenteranno motivazioni sopite. Egli troverà lo spunto per esercitare finalmente la professione medica – in Piemonte non lo aveva mai fatto – accanto alla sua attività di pittore. È tanto, c’è anche di più.

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Ma prima il pregiudizio dello spettatore. Un uomo colto, di pensiero fine e velleità creative, viene trapiantato nel sud più recondito. È sottoposto al controllo del podestà locale, regolato dalla censura. La scena: un mondo di colori brulli, un paesino sulla collina irregolare, le case dagli intonaci fatiscenti (riprese in esterno nel borgo abbandonato di Craco e a Matera). E poi, su tutto, la repressione dell’opinione. Le carte in tavola per l’eroe perseguitato che combatte, l’antisistema per eccellenza, ci sarebbero tutte. Ma il caso di Levi va oltre, e Rosi – sto per dimostrarlo come il primo dei matematici – nel proporre la novità è stato magistrale.

Veniamo a noi. Il dottor Levi è un uomo dalla pantomima semplice. Le sue gote e i suoi sguardi non denunciano rancore. Anzi, appena scende dal treno, prima di prendere la via per Aliano, ha atri e ventricoli talmente disponibili da decidere di adottare un randagio. La cinepresa su di lui si sofferma poco, dà più peso al paesaggio e ai primi autoctoni che incontra. L’uomo con l’automobile, incaricato di condurre Levi al paese, racconta la sua storia mentre guida – è emigrato in America e poi è tornato coi soldi, sorride, si vanta ingenuamente, butta giù improbabili slang inglesi – e il confinato ne è subito attratto. È la chiave di volta, l’idea maestra del film. L’inchiesta a cui Rosi ci aveva abituati – anche sin troppo bene – lascia spazio alla documentazione espressiva di un mondo, quello contadino, senza cedere alla pur legittima tentazione di denunciarne la desolazione.

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E la desolazione – chi ha visto il film o letto il libro lo saprà bene – di certo c’è tutta, è un morbo strutturale, impera ovunque senza scampo. I contadini non hanno nemmeno un medico che li possa aiutare e non ipotizzano l’esistenza di altri mondi e altri modi di vivere. Ma il cineasta cosa fa? Eleva – udite! udite! – il personaggio di Carlo Levi a cinepresa umana del suo reportage. Una metafora un po’ ingrata per dire che Rosi preferisce usare il suo protagonista come una lanterna che rischiara i volti degli autoctoni e non come megafono per amplificarne l’indignazione.

Carlo Levi si muove piano nel piccolo paese, ma in modo seriale. Visita il falegname, il prete, ascolta l’eclettico nobile decaduto, pone domande alle vecchie matrone. Ma i suoi non sono che input iniziali, proposte di soggetti teatrali senza neppure il canovaccio, una flebile scintilla affinché divampi il fuoco interiore dei suoi relatori. I paesani hanno così modo di esprimersi, raccontare le loro superstizioni risibili ma affascinanti, spiegare le motivazioni che li portano a comportarsi in un modo piuttosto che nell’altro, illustrare usi e costumi probabilmente invariati da millenni.

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Certo lo scarto tra la civiltà contadina del sud e il mondo cosiddetto civilizzato è enorme e Levi non intende tacerlo. “I contadini non hanno guadagnato nulla dalla Grande Guerra, una cosa decisa da Roma”, ed altri dialoghi esemplari li troviamo in tal senso nella tenzone Levi – podestà. Ma il medico-pittore, come detto, non ha intenzione di affondare il colpo politico, anzi si crogiola nella totale indifferenza quando il duce, attraverso gli altoparlanti nella piazza di Aliano, annuncia dalla radio la nascita dell’Impero dopo la vittoria in Etiopia.

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Non è un’inchiesta, dicevamo, ma neppure uno studio etnografico. Quel che interessa a Levi (a Rosi, quindi) è dipingere questi personaggi colmi di storie, a dispetto dell’ignoranza dei contadini tanto criticata dalla cultura italiana dominante fino agli anni Settanta. Matera era la “vergogna d’Italia”, il progresso un’ossessione, la povertà qualcosa di cui vergognarsi. Francesco Rosi alla fine della decade aveva certamente metabolizzato la visione neorealista, ma Cristo si è fermato a Eboli è diversissimo da La terra trema, i contadini acquisiscono dignità sufficiente a che una cinepresa possa posarsi su di loro per mostrarne forza e valori intrinseci.

Ed ecco perché ho scelto di recensire questo film. Per sottolineare il superamento del cinema neorealista e di quello d’inchiesta, di cui Rosi è peraltro maestro. Pellicole come questa o L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi hanno il pregio di essere documento espressivo, con l’onore del riflettore incantato sul suo palcoscenico.

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Per l’occasione Rosi decide di servirsi di un altro genio italiano, Gian Maria Volonté. La prova dell’attore piemontese è magistrale, come in altri casi. Per la riuscita del progetto, la pantomima sospesa di Volonté è stata a dir poco fondamentale. Volonté ha il notevole merito di bucare lo schermo senza offuscare la portata del fiume che lo inonda, semmai attraverso i suoi occhi vitrei e luminosi vediamo la forza dei soggetti che incontra. Siamo alla perfezione progettuale. L’esecuzione dello spartito è esatta.

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La sceneggiatura (Francesco Rosi, Tonino Guerra, Raffaele La Capria) è un lavoro “a togliere”, con le scene che non si risolvono mai esplicitamente. I dialoghi non finiscono mai con una risoluzione netta del conflitto, lasciano l’onere allo spettatore, il quale però capisce subito che le conclusioni siano ad ogni modo univoche. Il podestà fascista (un convincente Paolo Bonacelli) consiglia a Levi di non scrivere certe lettere, ma Levi non risponde, né sì né no. La sorella del protagonista (Lea Massari) parla con lui delle autocastrazioni che gli impediscono di fare il medico, gli intima di agire e superarsi, ma lui non promette nulla – di lì a poco lo ritroveremo finalmente medico praticante. Le scene con l’ambigua donna che lo ospita (una magnetica Irene Papas) sono persino più sospese.

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Il film vinse il David di Donatello – guarda caso in ex-aequo col già citato L’albero degli zoccoli – nel 1979 ma fu sottoposto anche a critiche negative, reo di essere un’inchiesta flebile, un pallido tentativo di denuncia della questione meridionale. Forse non ci avevano visto bene, stavolta Rosi voleva allestire un altro tipo di spettacolo.

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Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia.

Cristo ad Aliano non è arrivato. Allora vediamo cosa c’è in questo mondo, sembra dirci il film. Se lo consiglio? Per una volta niente chiose pirotecniche. Fate voi.

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Film evocati:

La terra trema (Luchino Visconti, 1948)

L’albero degli zoccoli (Ermanno Olmi, 1978)

Cristo si è fermato a Eboli (Francesco Rosi, 1979)


2 risposte a "Cristo si è fermato a Eboli – La bellezza dell’espressione"

  1. Sono…come dire…sopraffatta? Sì sopraffatta da questa recensione. Ha allargato questo cielo bianco umido e fraddo che scorre su di noi oggi. Bellissima penna…ma che dico bellissima…BELLA!

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